Agricoltura Sociale

Accoglienza e sostenibilità
L’Associazione di Promozione Sociale Il Fiore del Deserto
presenta, al pubblico dei suoi sostenitori e alla Rete territoriale
con la quale collabora, il progetto di Agricoltura Sociale
“Coltivare il Futuro”. La nostra realtà comunitaria individua
nell’attività di attenzione e di protezione dell’ambiente un
valore e una funzione terapeutica per i più deboli, nonché la
promozione dei loro stessi diritti. Infatti, le attività eco
sostenibili sono da sempre inserite nei programmi individuali
elaborati per i minori da noi presi in carico.


Nel corso degli anni abbiamo sviluppato numerose
collaborazioni e progetti sia con il movimento
dell’associazionismo e del terzo settore, sia con le realtà di
filiera corta e con le piccole imprese artigiane: l’ossatura
dell’economia sociale e sostenibile del Lazio. I primi passi sono
stati compiuti aderendo al “Programma di azione” Agenda 21:
un documento approvato dalle Nazioni Unite nel 1992, a Rio
de Janeiro, il quale riprende il concetto di sviluppo sostenibile
che la Commissione sull’Ambiente e lo Sviluppo aveva già
elaborato nel 1987:
lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del
presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future
di soddisfare i propri.


Partendo dal proprio profilo, definito dalla collocazione in
un’area periurbana, Il Fiore del Deserto si è reso consapevole
delle opportunità insite nel dialogo con le altre realtà del
territorio. Quindi, per meglio “agganciare” le sfide del nostro
tempo, ha collocato le proprie attività di agricoltura sociale in
un solco più ampio: quello del rinnovamento dell’agricoltura
nella dimensione multifunzionale, di agricoltura sostenibile e a
sviluppo terziario. L’associazione è andata, con ciò, ben oltre le
spinte verso l’industrializzazione selvaggia dell’agricoltura;
spinte responsabili delle conseguenze sul paesaggio e
sull’ambiente che hanno condotto all’impoverimento
dell’agricoltura stessa. La nuova ruralità può, invece, offrire
un contributo speciale per liberarci dalla necessità antica di
“sottomissione tecnologica della natura”, promuovendo,
piuttosto, la difesa del pianeta terra dal consumo incontrollato
dei beni naturali ancora disponibili. Sviluppo sostenibile, lotta
al cambiamento climatico e sostegno all’inclusione dei
migranti rappresentano il nostro programma di lavoro.


In quest’ambito collochiamo le pratiche e le attività
quotidiane a sostegno dei più deboli, affinché il nostro aiuto
vada oltre la dimensione della presa in carico, offrendo ad
ogni individuo – nel tempo accidentato che vive e in accordo
con le sue personali capacità – il senso di una presenza attiva e
consapevole. Se fosse solamente un mezzo utile, seppur
meritevole, per aiutare persone che versano in stato di
bisogno, l’agricoltura sociale si trasformerebbe in breve tempo
in una delle tante opportunità, già scontate, della nuova green
economy allargata al terzo settore. Si tratterebbe tuttavia di un
simulacro di agricoltura sociale, slegato da una vera e
rinnovata agricoltura civile.
Se vuole evitare di chiudersi in un bel recinto, nell’ambito
del quale gestire lembi di welfare, l’agricoltura sociale non può
rinunciare all’idea che, mediante la riconquista di un rapporto
equilibrato con la natura, con il cibo, con il lavoro in campo
aperto, con il tempo e con l’attesa, sia possibile realizzare un
cambiamento di orizzonte. Questa visione può “restituire”
all’agricoltura la sua originaria funzione di generatrice di
comunità. Entrando nella vita delle città, attraverso i servizi
che è in grado di offrire e i bisogni che è in grado di
soddisfare, la nuova ruralità può proporsi, nella sua
declinazione specificatamente sociale, come portatrice dei
valori etici da troppo tempo smarriti. Senza questo codice, il
futuro sarebbe molto più incerto e difficile. Declinarlo ogni
giorno, nel presente, è la sfida lanciata da Il Fiore del Deserto.

Rurali orizzonti
Di agricoltura sociale si parla e si discute da oltre un quarto
di secolo. Ma è solo negli ultimi 5/6 anni che la “nuova
ruralità” è entrata stabilmente a far parte delle linee di
riqualificazione sociale e sanitaria del nostro Paese, al fine di
consentire un ampliamento dell’offerta di spazi/ambienti di
cura e sostegno alle persone fragili. I protagonisti della nuova
ruralità sono i social farmers, le cooperative, le associazioni, la
innovativa imprenditoria agricola (soprattutto giovanile). Tali
realtà promuovono un diverso e nuovo orizzonte, sostenibile e
responsabile, orientato alla conservazione dell’ambiente
attraverso una gestione sociale – di servizio – delle attività
agricole.


Di fatto, in virtù delle molteplici funzioni che può svolgere
proprio in ambito sociale, tale tipologia di agricoltura è al
centro di numerosi interessi. In rapporto a quanto
sperimentato in questi anni dagli organismi più accreditati del
settore, la nostra organizzazione ha offerto un contributo alla
diffusione delle buone pratiche camminando, spesso, fuori dal
seminato. Pertanto, presentiamo la nostra esperienza come un
“fuori onda”: un fuori onda talvolta divergente rispetto agli
indirizzi proclamati dai più quotati network della nuova
ruralità, talvolta debitrice delle esperienze innovatrici diffuse.
Il progetto agricolo de Il Fiore del Deserto rappresenta, infatti,
una realtà dialogante, indipendente e non allineata, che porta
avanti un programma di inclusione delle differenze e del
disagio promuovendo esperienze lavorative protette ma,
parimenti, aperte al territorio e all’imprenditoria sociale e di
filiera corta.

Tale progetto fa parte di quelle realtà locali
inserite nei contesti urbani e periurbani che operano per
riportare, nella quotidianità complessa e confusa dei nostri
assetti sociali metropolitani, la meraviglia per la bellezza non come “fine” ma come “esperienza esistenziale e culturale”: una via di ricerca privilegiata che ci aiuta a capire la direzione
di marcia della nostra vita e il modo in cui percorrerla.
L’agricoltura de Il Fiore del Deserto è nata, sin da subito,
come un servizio rivolto alla collettività: non ha conosciuto
l’usuale trasformazione, sovente diffusa, da “agricoltura
tradizionale” volta alla produzione di alimenti per il consumo,
ad “agricoltura civile” volta alla generazione di benessere
terapeutico-riabilitativo.
Fissando nel sociale, sin dall’inizio, l’orizzonte agricolo nel
quale realizzare gli obiettivi della nostra attività, abbiamo
infatti potuto oltrepassare la fase della riconversione agricola
che ha, invece, caratterizzato l’esperienza di molte altre realtà
del settore. Esse, invero, sono spesso giunte all’agricoltura
sociale dopo aver abbandonato le coltivazioni convenzionali in
favore di quelle biologiche, le quali sempre più stanno
conquistando nuove quote di mercato. Tutto questo ha
comportato, per Il Fiore del Deserto, un impegno progettuale
autonomo che è nato, per così dire, “tra le mura di casa”.

Esso, infatti, è stato ispirato dalla viva esperienza comunitaria, la
quale faceva emergere l’importanza di attività terapeutico
riabilitative sorrette da un impianto metodologico coerente
con le esperienze sviluppate in Europa. Ma, al contempo,
portatore dei saperi pratici che scaturiscono dall’esperienza
reale, dal lavoro, dall’attitudine alla manualità presenti nel
nostro territorio e, appunto, nella nostra casa.
Forzando la sequenza “semina + raccolto= mercato”, è
possibile affermare che, prima ancora di proporsi come
agricoltura di servizio alla persona, la nuova ruralità
contribuisce a ridefinire l’orizzonte delle politiche agricole,
inserendosi con decisione nell’ambito degli orizzonti sociali ed
economici che si sono aperti intorno a noi, nell’accresciuta
consapevolezza che la cura dell’ambiente e l’attenzione al
modo attraverso il quale ci procuriamo il cibo sono sfide non
più rinviabili.

Semina + raccolto = benessere
Secondo la nostra visione, nel perseguire lo scopo di aiutare
le persone vulnerabili a riprendere un percorso d’integrazione
non assistenziale, il progetto agricolo dovrebbe sempre
includere il lavoro diretto dei campi, nonché le attività utili al
mantenimento dell’efficienza produttiva del terreno e degli
strumenti del lavoro utilizzati dall’azienda, associando le
esperienze di lavoro alle capacità individuali di ciascuno.
Un’agricoltura sociale che, pertanto, rappresenti sempre
meno una sovrastruttura esclusivamente di servizio che limita
il “campo agricolo” alla funzione di contenitore del disagio
all’aria aperta. Per noi, “fare” agricoltura sociale rappresenta,
quindi, un concreto ritorno alla terra e alla produttività
sostenibile di quest’ultima, all’interno della sequenza, questa sì
innovativa, “Semina + raccolto = benessere”. Nei fatti, la
nostra realtà è orientata ad accogliere la nuova funzione
sociale dell’agricoltura direttamente in campo aperto, nel farsi
quotidiano e ciclico delle pratiche di coltivazione, e non in
modo strumentale, ovvero in un’agricoltura sterilizzata che
offre piantine e terra come fossero pillole volte a contenere e a
calmare il disagio.


Per poter rappresentare un efficace metodo riabilitativo e un
valido strumento di cura, l’ortoterapia, alla quale è dedicato
un’importante e specifica sezione di questo opuscolo, non
deve essere disgiunta dal “piano agricolo di coltivazione
aziendale”. Essa ne deve piuttosto rappresentare parte
integrante: una parte attiva e produttiva.

La strada dell’agricoltura sociale è ancora impervia e se nel
trattare di tale argomento assumiamo un punto di vista
divergente non è perché intendiamo adottare, a tutti i costi,
uno spirito di vis polemica. La nostra visione vuole piuttosto
esprimere, con nettezza, ciò che secondo noi può
rappresentare una deriva che porterebbe allo snaturamento
seriale dei contenuti innovativi praticati in questi anni da molti
operatori. Tante persone che, affrontando non pochi sacrifici,
si sono impegnate per condurre questo settore a essere un
valore non omologabile alla sola soddisfazione del mercato
sociale.


Detto altrimenti, Il Fiore del Deserto intravede in determinati
indirizzi presi dall’agricoltura sociale il rischio di uno
scivolamento verso la creazione di oasi di benessere che
“musealizzano” la vita contadina e l’agricoltura, per sostituirla
con pratiche terapeutiche e di accoglienza distinte e distanti sia
dal piano concreto della coltivazione, sia dalle pratiche attive e
dirette dell’azione lavorativa delle persone. Un esempio di ciò
è rappresentato dagli agriturismi e da talune realtà agricole:
aziende che molto spesso utilizzano impropriamente il
marchio delle fattorie sociali; aziende dove si possono trovare
conservati i simulacri del tempo che fu, salvati ma inerti e del
tutto privi di vita propria, messi in mostra per ricordare un
passato di fatica dal quale ci siamo finalmente liberati. Un
passato non più appartenente al circuito agricolo e al lavoro
ma a quello degli agro-musei delle memorie perdute. Anche
aldilà delle migliori intenzioni, la fattoria sociale sovente si
realizza all’interno dei circuiti dell’intrattenimento, del
turismo rurale, per affascinare i visitatori e conquistare flussi
esterni di nuove risorse: visite guidate, spazi in cui
“parcheggiare” i bambini, luoghi ove acquistare prodotti
socialmente corretti e rilassarsi il fine settimana.
Seppure sia caratterizzata dalla comune funzione di servizio
alle persone deboli e vulnerabili, l’agricoltura sociale può
dunque assumere, sulla base dei vari contesti territoriali e
delle molteplici culture di riferimento, differenti declinazioni
nell’utilizzo di modelli e metodologie. Per Il Fiore del Deserto,
fare agricoltura sociale non significa sostituire la “coltura”,
intesa come ciò che sta in basso, con la “cultura”, intesa come
ciò che sta in alto. Generalmente, invece, nel tentativo di
magnificare la campagna, i seppur nobili intendimenti che
sottendono le attività agricole finiscono per proporre la
suggestione di allontanare dalla nuova ruralità lo spettro della
fatica e ogni riferimento al lavoro manuale, palesemente
ancora inteso nei termini di un mestiere degradante e
umiliante e quindi né soddisfacente né socialmente appagante.
L’agricoltura, infatti, non ha bisogno di essere nobilitata in
“agri-cultura” per rispondere alle nuove esigenze e realtà che
si avvicinino al mondo agricolo, con la speranza di trovare
soluzioni e risposte a talune inquietudini e incertezze
contemporanee. Ancora una volta, la tendenza dei sistemi è
quella di convertire le nuove pratiche socio-economiche, nate
per rispondere ai cambiamenti, in linee d’intervento volte a
mutare i beni in merce. Ciò, con più fortuna degli alchimisti
del XV secolo che intendevano tramutare i metalli in oro.

La nostra organizzazione non è orientata a promuovere
discussioni sulle cose che non vanno, per criticare il tutto e,
come ci ricorda la saggezza popolare, “buttare il bambino con
l’acqua sporca”. Tutt’altro. Infatti, ci siamo inseriti nel contesto
del dibattito sull’agricoltura sociale per contribuire al
rafforzamento delle buone pratiche diffuse sui territori. Perché
crediamo fortemente nel valore sociale della terra e nell’attività
agricola reale: quella che rispetta i tempi della natura e delle
persone che vi partecipano, tanto nel lavoro quanto nel
godimento dei frutti che il mestiere produce. E crediamo
decisamente che l’agricoltura sociale o, per meglio dire,
l’agricoltura civile, possa rivestire un ruolo da protagonista in
questa nuova idea di ruralità: un servizio alla cittadinanza, la
parte di un nuovo welfare tutto ancora da progettare.

Dalla famiglia contadina all’agricoltura sociale
L’agricoltura sociale è, peraltro, una realtà con radici
profonde nella cultura del mondo contadino. Nelle semplici
manifestazioni di vita che affondano nella famiglia rurale
allargata, contraddistinta per le sue forme aggregative
comunitarie e civili, i nuclei familiari non hanno mai escluso
dal lavoro le persone in difficoltà. Il carattere collettivo
dell’attività nei campi e la naturale lentezza dei cicli stagionali
permettono l’accoglienza anche di chi ha qualche
impedimento, dando loro dignità. I contadini, nelle loro case,
non emarginavano nessuno e tutti – anche gli invalidi –
potevano contribuire alla sussistenza della famiglia senza
scoprire l’importanza dei benefici terapeutici delle attività
agricole.


Nel XVIII secolo la psichiatria americana ha compreso che
“fare” è meglio che “non “fare”. Ovvero che se una persona è
inserita in un contesto di lavoro accogliente, piuttosto che nei
manicomi, vive meglio. Non citeremo, in questa sede, nomi e
storie di importanti studiosi che hanno indagato gli effetti
positivi del lavoro agricolo sulla psiche delle persone affette da
patologie psichiatriche; non segnaleremo le numerose
esperienze rurali, soprattutto francesi del XIX secolo, che
hanno consentito a centinaia di uomini e donne di poter vivere
con dignità la propria vita salvandosi dai manicomi,
sfuggendo a quella prassi consuetudinaria che imponeva di
rinchiudere in tali istituzioni gli individui non allineati,
oppure solo apparentemente “strani” o con disturbi
relazionali.

Il benessere che proviene dal lavoro agricolo, dal contatto
con gli animali, dallo stare insieme per condividere pratiche
comuni che oggi conosciamo con i nomi di “orto-terapia”,
“attività assistita con gli animali” e “lavoro di gruppo”, ha in
passato sempre caratterizzato la vita contadina. Le attività
erano condivise e praticate con le differenti abilità presenti
nella famiglia allargata.
Non intendiamo certo sottovalutare il lavoro di importanti
studiosi del passato, come Benjamin Rush, o del presente, i
quali tanto hanno contribuito all’affermazione dell’agricoltura
sociale. Nel ricordare che essa affonda le sue radici, anzitutto,
nella storia del mondo contadino, vogliamo piuttosto
sottolineare, ancora una volta, l’importanza di un’origine.
Ricostruire quel legame vuol dire liberarlo sia dalle
suggestioni di un assurdo ritorno al passato stile “decrescita
felice”, sia dalle pressioni ideologiche e politiche che
individuano nel movimento per una nuova ruralità
un’occasione per occupare, con la declinazione socio
terapeutica dell’agricoltura, spazi di welfare sovvenzionato.
Dalla vita socio-familiare del mondo contadino, che non
discriminava nessuno, all’innovativa agricoltura sociale, il
passo, comunque, non è stato breve. Nel mezzo si è infatti
articolata una lunga fase nell’ambito della quale abbiamo
assistito a diversi cambiamenti: dapprima l’industrializzazione
dell’agricoltura con la trasformazione del paesaggio, poi la fine
delle coltivazioni di sussistenza, della biodiversità e della
famiglia contadina allargata; poi, ancora, con le crisi di
sovrapproduzione alimentare, il progressivo abbandono delle
campagne e la concentrazione delle produzioni agricole nelle
mani di poche aziende.


Il fenomeno della nuova ruralità nasce sul finire degli anni
Settanta, spinto anche da percorsi motivati da realtà tra loro
differenti ma non contrastanti. L’agricoltura sociale, infatti, si
inserisce in modo carsico all’interno del flusso dei
cambiamenti culturali, sociali e politici che hanno segnato il
corso degli ultimi anni del secolo scorso.
Il generale rinnovamento sperimentato in quegli anni aveva
spinto i movimenti verso nuove prove nelle quali, finalmente,
la terra e il mondo agricolo, con i suoi cicli stagionali dalla
semina al raccolto, ricevevano una diversa attenzione,
soprattutto dopo anni di abbandono delle campagne e di
fughe nelle città, con la conseguente definitiva affermazione
della società industriale. Per tutti gli anni Sessanta, gli anni del
cosiddetto “boom economico”, conquistare un posto nel
mondo urbano, anche se alla catena di montaggio, costituiva
una vittoria sociale: il contadino e la terra rappresentavano il
passato, la città e la fabbrica rappresentavano il futuro.
La crisi petrolifera del 1974 rimise, però, tutto in
discussione, e differenti movimenti giovanili seppero cogliere,
in quel crollo, i limiti dello sviluppo capitalistico. Uno
sviluppo che, al contrario di quanto sostenessero le dottrine
economiche più liberiste, non poteva essere illimitato,
impattando tanto negativamente sull’ambiente.
La nascita dei movimenti ambientalisti e la rivalutazione
della funzione sociale ed ecologica della terra condussero
all’apertura di una nuova stagione di lotte per l’occupazione
delle campagne incolte. Le nuove aggregazioni di tipo
cooperativistico consentirono ai territori di recuperare spazi di
benessere: aree verdi mediante le quali permettere alle
metropoli di respirare e di riscoprire la campagna pure per la
funzione di servizio e di accoglienza che esercita sui più
deboli. Vi trovarono un ruolo anche studenti e giovani
disoccupati, portando una cultura nuova, ecologista e solidale,
con cui impegnarsi per avvicinare la campagna alle città.
Tuttavia, tale ritorno al mondo contadino si espresse in
modo episodico. Ciò, anche in virtù del fenomeno del riflusso
che interessò molti giovani, delusi dalla politica e sconcertati
dalle derive estreme e violente che si presero la scena politica
tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. Ad ogni modo, la
dimensione politica, economica e terapeutica dell’agricoltura
sociale comunque crebbe, insieme all’attenzione dei cittadini
verso il mondo agricolo e l’ambiente.


Anni dopo, il Parlamento ha varato – nel 2015 – la legge n°
141, la quale definisce il quadro giuridico in cui si pratica
l’agricoltura sociale. Un risultato importante, un primo passo
che può consentire a chi lavora in questo ambito di progettare
scelte e indirizzi sociali. Le aree di riferimento sono portate
avanti da una serie di organizzazioni di settore che aggregano
al proprio interno associazioni, imprese e cooperative con lo
scopo di fare rete per migliorare e gestire l’offerta socio
sanitaria ed educativa.

Pratolungo… tutti su per terra
…Ma con la zappa rivolta alle innovazioni. Innovazioni
indotte dalla città che, avanzando, trasforma l’agricoltura da
settore primario a nuovo terziario rurale. Ciò, per rispondere a
una domanda crescente di benessere alimentare, di sana
nutrizione e conservazione degli eco-sistemi, di attività
psicoeducative/formative/riabilitative
per persone svantaggiate e fragili, portatrici di differenti abilità.



Pratolungo è un’esperienza agricola evoluta, che si fa
interprete di un bisogno che nasce all’interno delle nostre città
come risposta agli effetti collaterali di uno sviluppo
incontrollato, indotto dall’espansione
dissipante che caratterizza questa fase storica delle aree metropolitane
complesse. L’area in questione (un fondo valle dell’agro
romano prospiciente il fosso di Pratolungo, un affluente del
fiume Aniene) è inserita nel contesto periurbano del quadrante
Nord-Est di Roma, tra la via Tiburtina e la via Nomentana, con
a Est i piccoli rilievi dei monti Cornicolani e dei monti
Lucretili, dominati dalla sagoma blu di monte Gennaro.
Pratolungo è stato, per molti anni, un terreno incolto,
soggetto allo sversamento di rifiuti. Sostenendo un progetto di
agricoltura sociale, Il Fiore del Deserto sta realizzando,
attraverso la sua omonima società agricola, un vasto disegno
di riqualificazione ambientale dell’area. Si tratta di un progetto
che è nato dalla terra, dalla possibilità di valorizzare un tratto
di campagna per molti anni abbandonato.


Intorno alla possibilità di recuperare un’area verde di circa
sette ettari, si sono incontrate due necessità: a) fare agricoltura
sociale per creare altre e nuove opportunità di lavoro rivolte a
persone svantaggiate; b) rendere fruibile ai cittadini del
territorio un’area di pregio paesaggistico, nell’ambito della
quale sperimentare percorsi di orticoltura e ortoterapia. In
generale, il progetto si inquadra in un disegno d’inclusione
sociale attraverso la valorizzazione delle zone verdi urbane e
periurbane di cui la città di Roma è particolarmente ricca.
L’area di nostro specifico interesse è parte, quindi, del
nuovo fluire dei percorsi agricoli. Essi promuovono una nuova
ruralità nell’ambito di un welfare del quale l’agricoltura
rappresenta un asse strategico. La nostra missione, nata dal
sostegno alla vita fragile, include quindi la sperimentazione di
innovazione sociale nel settore rurale e nell’agricoltura
sostenibile. Ciò, al fine di portare la campagna dentro la città e
pertanto invertire la tendenza all’espansione convulsa delle
grandi metropoli.


Con il progetto “Coltivare il Futuro”, Il Fiore del Deserto
propone di recuperare e ricostruire spazi nei quali far vivere
esperienze di eco-sostenibilità e di cultura
ambientale altrimenti alienate ai cittadini, nonché restituire, ai
contesti urbani stessi, i luoghi nei quali poter far vivere i saperi
tradizionali e ritrovare un contatto diretto con la natura. Tutto
ciò al fine di contribuire, partendo dalle persone, alla
progettazione di un futuro sostenibile delle nostre città.

Orti urbani
Quarantacinque sono gli orti urbani attualmente coltivati da
cittadini che hanno adottato una particella di terreno di circa
80 mq. Queste persone (gli ortisti) ben rappresentano gli
interessi diffusi verso la natura e l’ambiente propri di
importanti settori della cittadinanza. Sono imprenditori,
artigiani, giovani, pensionati, impiegati, liberi professionisti:
donne e uomini che, coltivando un orto, ritrovano un tempo
nel quale la natura riprende a esercitare una funzione di
equilibrio. Infatti, il progetto di orti urbani a Pratolungo, pur
andando incontro alla richiesta di quanti si propongono di fare
un’esperienza agricola circoscritta a un piccolo orto, propone
di esercitare una coltivazione armonica per generare un tempo
libero sia dallo stress, sia da nostalgici ritorni al passato
contadino, idealizzato da tendenze e mode culturali.


A Pratolungo, infatti, gli orti urbani si collocano
completamente all’interno del disegno che prevede di
incrementare, coltivando secondo natura, l’attenzione verso
l’ambiente e verso la cura del paesaggio. Un’attenzione
fondamentale per migliorare la qualità della vita nelle città.
Nel nostro immaginario futuro, la “campagna coltivata” e la
“città vissuta” saranno inscindibili: l’una necessaria all’altra,
senza più separatezza ma con la condivisione di spazi e
architetture progettati per fare incontrare i beni con i bisogni, il
tempo della natura con la natura del nostro tempo individuale.

Api
Vive e sciama a Pratolungo, occupando un apiario
composto da 10 famiglie di api di razza mellifera ligustica,
l’ape italiana.
La nostra apicoltura è nata molti anni fa per inviare un
segnale di attenzione verso il fenomeno della scomparsa di
questi insetti e suscitare nei giovani l’importanza del prendersi
cura dell’ambiente, adottando dunque comportamenti
sostenibili. Le api e la loro organizzazione ci insegnano
qualcosa che, nel tempo, le nostre società stanno perdendo.
Anche le impollinatrici di Pratolungo sono un segnale che
abbiamo voluto inviare al territorio e alle persone che
praticano il quadrante Nord-Est di Roma. La presenza di
questi insetti segnala che in tale fondo valle è in corso un
progetto di recupero ambientale, un risanamento e una
sinergia tra tutte le componenti che definiscono un’agricoltura
sostenibile.
Le api, infatti, non potrebbero vivere e moltiplicarsi in un
contesto sottoposto a stress ambientale, a inquinamento e,
soprattutto, a pesticidi. Un’innovativa agricoltura sociale non
può prescindere dalla presenza delle api; il lavoro che esse
svolgono è insostituibile.

L’agricoltura sociale de Il Fiore del Deserto
Ambiente, cura terapeutica, spazi e architettura comunitaria
hanno sempre avuto un collegamento nell’esperienza
quotidiana e nel pensiero di chi lavora o vive a Il Fiore del
Deserto. Questo essere un insieme, scevro di alcuna
separatezza, è sin dal primo momento avvertito da chi si reca
presso la nostra Comunità a farci visita: il giardino, gli alberi,
la parte coltivata e gli animali costituiscono, da sempre, un
tutto unico con le persone accolte presso la struttura e con
quelle che ci lavorano.
Il Fiore del Deserto non è mai stato solo una Comunità con un
bel giardino intorno. Fin dal primo sguardo, la struttura
architettonica, il paesaggio circostante, i segni di una vita
quotidiana intensa e mai ordinata si “con-fondono”, compresi
come sono in un unico e continuo spazio socio-terapeutico.
Un’interdipendenza senza la quale lo stesso Progetto
Accoglienza non potrebbe esistere.
La sensibilità ambientale e paesaggistica è, quindi, in linea
con la vocazione per la bellezza, interpretata da Il Fiore del
Deserto come importante funzione terapeutica e culturale, a
sostegno delle fragilità. Seppure facilitata da questo contesto
favorevole e accogliente, la decisione di promuovere la
responsabilità ambientale e di chiamare i ragazzi ad assumere
comportamenti coerenti con le indicazioni di Agenda 21 non
ha costituito una scelta facile. Gli adolescenti tutti, e ancor di
più quelli già in guerra con la vita, non sono affatto disponibili
ad assumersi responsabilità che vanno oltre le loro esigenze
immediate.


La cura degli spazi comuni, come pulire un giardino,
occuparsi degli alberi, mantenere un prato, governare gli
animali e coltivare un vero orto, non rientrano facilmente nel
piano delle pratiche quotidiane che possono interessare dei
giovani che devono riprendere nelle loro mani una vita partita
male. Mettere in atto un indirizzo ambientale deciso e
realmente praticato non era una scelta obbligata. Il pensiero
che un percorso riabilitativo potesse essere considerato
davvero riuscito solo quando la persona fosse divenuta
padrona delle sue scelte individuali e di quelle che
appartengono alla parte migliore della sua generazione,
rappresentava un’idea tutt’altro che scontata e condivisa.
Il passaggio all’agricoltura sociale ha aperto nuovi indirizzi
terapeutici, allargando il campo della cura non tanto al metodo
quanto alla promozione di una partecipazione attiva alla cura
stessa. Ciò, attraverso un “fare” che fosse agganciato al
recupero di quei saperi tradizionali che consentono di
sperimentare il valore del lavoro, del tempo e dell’attesa.
L’obiettivo generale è stato quello di promuovere, tra i giovani
ospiti della Comunità, la cultura ambientale come occasione di
riflessione, crescita e maturazione individuale con cui
rafforzare i percorsi di riabilitazione, di reinserimento e di
inclusione. Pur non essendo una novità nel contesto del primo
decennio del nuovo secolo, la scelta di introdurre la cultura
ambientale nei piani educativi e di sostegno alla crescita dei
giovani in difficoltà (anche caratterizzati da condotte e agiti
psicotici/borderline) si è rivelata fortemente innovativa. I
promotori del progetto erano mossi dalla consapevolezza che
molte delle problematiche del mondo giovanile che entrano in
rotta di collisione con il mondo degli adulti – la scuola, la
società e le regole che la sorreggono – trovano negli stili di vita
e nei modelli sociali fortemente competitivi un incubatore
confermativo per comportamenti devianti e anti-sociali da
parte dei ragazzi stessi. Stili e modelli percepiti da questi
giovani come gli unici validi per vivere relazioni umane e
pubbliche soddisfacenti.

Promuovere, tra i giovani, un diverso stile di vita,
sostenibile e solidale, ha significato, quindi, andare contro
corrente. Si è trattata di una scelta responsabile, innovativa e
matura che, inserendola nei suoi programmi, Il Fiore del Deserto
ha saputo e ha voluto lanciare. La strategia di percorso
individuata considera lo spazio verde disponibile non come
un elemento puramente decorativo e d’arredo urbano, ma al
contrario come viva terra per un progetto di agricoltura sociale
e di difesa del paesaggio.